Greca di spirali

Verrà presentato il 27 febbraio a Roma presso l’Auditorium della Tecnica in occasione dell’Assemblea elettiva della Confederazione Italiana Agricoltori Bioresistenze  – cittadini per il territorio l’agricoltura responsabile (Esedra editrice – Padova).

Un sincero ringraziamento a tutti coloro che si sono lasciti coinvolgere in questo percorso durato un anno, a tutti coloro che hanno arricchito questa esperienza con la loro curiosità e il loro entusiasmo, a chi ha contribuito alla riflessione con la propria sensibilità. Senza di loro Bioresistenze non sarebbe quello che abbiamo dato alle stampe.

Premessa

 

Federico ed Elena guidano un’azienda che pratica agricoltura biologica su circa 4 ettari di terreno collinare, bosco e oliveto, a Orbicciano e tre ettari di campi in pianura a Saltocchio, sempre nelle vicinanze di Lucca. Federico ed Elena fanno i contadini con passione nel rispetto per le tradizioni, per l’ambiente, per le specie autoctone, recuperando un terreno abbandonato e difficile dove scelgono di resistere attraverso una ricerca rispettosa della comunità e del territorio. È stato Federico che, durante il nostro incontro, ha descritto il suo essere un “contadino resistente” come capacità d’innovazione e sperimentazione. «Nei terreni dell’azienda si trovano ancora piante da frutto che fiancheggiano capannelli di fagioli e solchi di pomodori legati ancora con salci e ginestre. Nell’orto antiche varietà lucchesi come il cardo gobbo, il fagiolo cannellino e stortino, il fagiolo rosso di Lucca, il pomodoro canestrino, le braschette e il fagiolino a stringa». 

Nell’alessandrino Ottavio fonda con due amici, sul finire degli anni ’70, la Cooperativa Valli Unite. I tre ragazzi, innamorati della propria terra e del loro lavoro, cercano così un modo nuovo per continuare ad essere contadini. Cominciano mettendo insieme le loro vigne e costruendo una stalla così da avere il concime organico per ingrassare i campi. Tutto come una volta, ma con la convinzione che il biologico sia la base di partenza per una ricerca che si chiama «riduzione dell’impatto sulla natura». La Cooperativa si sviluppa, ricostruisce il tessuto sociale della comunità, rianima un territorio, riscopre e conserva antichi saperi intersecandoli con metodi produttivi innovativi. Economia vera, agricoltura che produce crescita. 

In Campania Ciro, con la Cooperativa (R)esistenza, gestisce il Fondo Rustico Amato-Lamberti, bene confiscato alla camorra. (R)esistenza, partendo da Scampia, inizia un percorso di riscatto sociale che si rivolge a tutto il Paese.
 Per realizzare tale obiettivo, sul bene confiscato sono stati avviati percorsi educativi, formativi e di inserimento lavorativo: 14 ettari di vigneto e pescheto per curare un territorio e per fare antimafia. 

Cosa possono avere in comune queste e tante altre esperienze? Come mettere insieme percorsi umani, sociali, personali e professionali così diversi in un unico volume? In cosa individuare il filo rosso che lega cooperative, associazioni, piccole aziende famigliari, grandi imprese agricole? 

Queste donne e questi uomini grazie al loro lavoro, al loro impegno, alla fiducia nel futuro, ogni giorno resistono semplicemente e tenacemente ai processi di degenerazione finanziari. Resistono alla perdita di biodiversità, agli scempi ambientali, resistono all’appiattimento culturale che vuole privarci di gusti, sapori e saperi, resistono all’omologazione, al consumismo barbaro, resistono alle mafie. Persone che, con chiarezza, ci guardano dicendo io sono qui, assumendosi la responsabilità di essere presenti, di rispondere ai bisogni del mondo in cui vivono, senza voltare le spalle al loro presente. Donne e uomini che impegnandosi, ognuno a proprio modo, per costruire prospettive virtuose, fanno e curano la democrazia.

Siamo soliti abusare di questa parola, appiattirla al solo momento del voto, per poi credere che vivere in una democrazia significhi semplicemente essere liberi di fare quello che si vuole; pensiamo che la res publica – proprio in quanto cosa pubblica – non ci riguardi, ma così facendo perdiamo il senso stesso di questa forma di governo. La democrazia non è né più semplice né più forte delle altre forme di governo, la democrazia è esercizio pratico e costante di cittadinanza, è plebiscito quotidiano, è un obiettivo che va raggiunto in continuazione attraverso l’impegno di ognuno nel proprio quotidiano. 

Ecco che, in questo orizzonte, le esperienze incontrate trovano il filo rosso che le lega al e nell’esercizio della democrazia. 

E proprio nel segno di una pratica di legalità e di democrazia ha preso avvio Bioresistenze quando, il 18 febbraio 2013 a Gergei Su Piroi, gli alunni delle scuole superiori di Cagliari hanno ripiantumato con fichi d’india e mirto alcuni terreni confiscati alla camorra: giovani che hanno imbracciato zappe, vanghe e picconi, che si sono sporcati le mani per pulire un territorio. Giovani che hanno sollevato cassette e spalato perché quelle terre vengano riattraversate dalla linfa dei diritti, ancor prima che dalle radici delle piante. Bioresistenze è quindi un percorso in cui tenere insieme pratiche agricole che s’intrecciano all’impegno, alla responsabilità, alla concretezza di essere presenti, di vivere in un territorio e in una comunità. Pratiche agricole che ci mostrano il coraggio e la coerenza di una scelta.

Alla domanda sulla possibilità di legare l’agricoltura, il rapporto con la terra, la produzione alimentare, alla democrazia, possiamo far seguire un’altra domanda: gli studenti cagliaritani, attori dell’esperienza che apre il nostro percorso, cosa hanno fatto? Ma possiamo continuare domandandoci: gli agricoltori della Cooperativa Valli Unite cosa fanno? Giuseppe che gestisce e cura il Giardino della Kolymbetra ai piedi della Valle dei Templi di cosa si occupa? Manola e le sue figlie quali frutti seminano? Antonio e Ciro che riconquistano terreni che le mafie hanno rubato alla Repubblica quale battaglia stanno conducendo? Michele, che con l’integrazione sociale degli immigrati e i diritti sindacali risponde alla ’ndragheta, quale ruolo esercita? 

Tutti costoro sono cittadini che hanno fatto una scelta, che si stanno impegnando per realizzare l’obiettivo che si sono posti. Un obiettivo che per essere compreso necessita di inquadrare queste esperienze all’interno dell’amore e del rispetto per la terra, per la comunità che la vive, per la sua storia, per la sua biodiversità. Sono tutti esempi di democrazia sostanziale, esempi di cittadinanza. Contadine e contadini, cittadini appunto, che si assumo la responsabilità di un pezzo di Paese, di uno spicchio di futuro.

Se la democrazia fosse una pratica di governo tra le altre, non necessiteremmo di cittadini, non dovremmo chiedere impegno, sarebbe sufficiente delegare le decisioni a gruppi di persone periodicamente elette. Ma non è così, o almeno questo aspetto solo formale non è sufficiente a sostanziare questo modo di governare. La democrazia per essere deve essere praticata e difesa ogni giorno: saldando diritti e doveri nell’impegno di rimuovere gli ostacoli alla realizzazione di ogni persona. Non a caso la rimozione degli ostacoli, uno dei principii fondanti tutta la nostra archittettura istituzionale, è affidata dalla nostra Costituzione (articolo 3) alla Repubblica nel suo insieme, non al Parlamento, non al Governo, non alla Magistratura o alle Forze dell’ordine, ma all’insieme di queste Istituzioni coadiuvate da noi tutti.

Una “certa” agricoltura, nel realizzare i valori contenuti nella nostra Carta costituzionale, assume quindi un ruolo politico. Tutelare il paesaggio, curare la fertilità della terra, coltivare sano, presidiare il territorio non sono, dunque, azioni buone, bensì azioni giuste. 

Così come è giusto vivere la comunità, impegnarsi nel proprio contesto quotidiano, denunciare gli abusi sul territorio. 

Discutere di agricoltura o di alimentazione significa mettere a fuoco il concetto di terra come bene comune, risorsa necessaria al mantenimento della vita sul nostro Pianeta nel presente e soprattutto nel futuro. 

Se, allora, la terra è un bene comune, che costituisce il fondamento delle comunità, lavorare per produrre rispettandola è un’azione politica. 

La terra non è una proprietà tout court è finita, è limitata, su questa stessa terra vivranno le future generazioni, dipenderanno dalla sua fertilità. Tanto che L’Onu nel 4° articolo della “Dichiarazione sulle responsabilità delle generazioni presenti verso le generazioni future” del 1997 afferma: 

Le generazioni presenti hanno la responsabilità di trasmettere alle generazioni future una Terra tale da non essere un giorno danneggiata irrimediabilmente per via dell’attività umana. Ogni generazione, che riceve temporaneamente la Terra in eredità, dovrà vegliare ad utilizzare in maniere ragionevole le risorse naturali e a fare in modo che la vita non sia compromessa dai mutamenti nocivi sugli ecosistemi e che il progresso scientifico e tecnico in tutti i campi non leda alla vita sulla terra.

Per questi motivi discutere di agricoltura ha un valore, un significato del tutto particolare rispetto alle atre attività umane. Se la terra è un bene comune, se dei frutti della terra dobbiamo vivere, curare il suolo, difenderlo dagli abusi edilizi, dall’inquinamento, dalle mafie, prendersene cura significa curare la comunità in cui viviamo offrendo la possibilità a chi ci seguirà di fare altrettanto. 

Un’attività quindi che diventa centrale nel nostro pensare al futuro, al mondo che vogliamo e dobbiamo costruire.

Essere cittadini di una democrazia comporta la capacità e la fatica di prendere una decisione. Se questo è vero, come agli agricoltori spetta il compito di sfamare l’umanità permettendo alle future generazioni di fare lo stesso, ai consumatori tocca il ruolo di scegliere senza trincerarsi alle spalle di clichés e luoghi comuni. Non dobbiamo e non possiamo accontentarci di facili posizioni: km zero, biologico, biodinamico, prodotto locale (anche se tutte, sia chiaro, rappresentano realtà virtuose). Dobbiamo decidere cosa consumare sapendo che le nostre scelte influiranno necessariamente sui meccanismi economici e sulle attività produttive del Paese. Dobbiamo informarci per conoscere cosa consumiamo e come viene prodotto, dobbiamo impegnarci per valorizzarlo nello spazio della condivisione e dell’identità aperta che è la nostra tavola.

In questo contesto il progetto ha preso corpo, è cresciuto e si è arricchito attraverso incontri con numerosi esponenti della vita culturale, politica e associativa ai quali va il mio più vivo ringraziamento per il fecondo apporto di idee dato a tutto il percorso. Il frutto di questi incontri è pubblicato sul sito del progetto: http://www.bioresistenze.it. 

Al sito segue questa pubblicazione che offre sia la documentazione fotografica delle esperienze incontrate, sia otto articoli che riflettono con autorevolezza sull’agricoltura da quattro angolature diverse: quella sociale in un mondo globalizzato, quella culturale-antropologica, quella legata alla biodiversità e al rispetto ambientale, quella economica. 

Immagini e testi insieme parlano di agricoltura responsabile come presidio di democrazia.

 Un’ultima precisazione. L’espressione resistenza non va qui mai intesa come volontà di opporsi al rinnovamento o al progresso, tutt’altro. L’idea di resistenza sottesa a questo percorso, è quella che si è manifestata nella resistenza partigiana. Allora un pezzo di società si prese l’impegno di cambiare l’ordine esistente, e di farlo unicamente perché era giusto: era giusto opporsi alla dittatura e alla sopraffazione. Oggi resistere è presidiare il territorio per difenderlo dagli abusi, dagli scempi edilizi e ambientali, dallo sfruttamento fine a se stesso e dalle mafie. Un’azione di resistenza che ha come obiettivo il bene di tutti.

 Impegno e responsabilità non sono prerogativa di alcuni ma concreto esercizio di cittadinanza possibile per tutti. C’è un’agricoltura e c’è un consumo, che costruiscono democrazia ogni giorno per tutti noi.

(Guido Turus, gennaio 2014)

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